NOVARA: IL CASTELLO DI BARBABLU’ di Béla Bartók, a cura di Nicola Salmoiraghi

NOVARA: IL CASTELLO DI BARBABLU’ di Béla Bartók, a cura di Nicola Salmoiraghi

  • 25/10/2021

DOPO L’ULTIMA STANZA
PRELUDIO A BARBABLÙ

Musica di Claudio Scannavini

IL CASTELLO DI BARBABLU’

Orchestrazione per organico orchestrale ridotto Paola Magnanini e Salvatore Passantino (Accademia AMO)
Musica di Béla Bartók
Libretto di Béla Balázs
Traduzione di Hannah Gelesz e Deda Cristina Colonna

Direttore Marco Alibrando
Regia Deda Cristina Colonna
Assistente alla regia Hannah Gelesz

Barbablù Andrea Mastroni
Judith Mary Elizabeth Williams
Prologo Giuditta Pascucci, Carolina Rapillo

Scene e costumi Matteo Capobianco
Orchestra del Teatro Coccia
Coproduzione Fondazione Teatro Coccia e Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi

 

Teatro Coccia, 23 ottobre 2021


Per il ritorno dell’opera a capienza piena, il Teatro Coccia di Novara ha  avuto la ventura di proporre al pubblico una scelta decisamente raffinata e già rara nel cartellone di un grande Teatro, figurarsi nella cosiddetta “provincia”, Il castello di Barbablù di Béla Bartók, liberamente tratto dalla fiaba di Perrault e dal dramma simbolista di Maeterlinck Ariane et Barbe Bleu. Purtroppo il pubblico, che deve essere indubbiamente precedentemente preparato,  incentivato e condotto verso questo tipo di titoli, non ha risposto come si sperava, e la sera della “prima” il Teatro risultava desolantemente sguarnito rispetto alla capacità ricettiva. Cosicché quando, in uno dei momenti più riusciti dello spettacolo, l’apertura della quinta porta, il protagonista mostrava a Judit il suo regno, e ad ogni crescente lampo orchestrale, con un gesto dava vita alla luci della sala, ordine per ordine, sino ad arrivare al lampadario centrale, il “reame” (interessante e suggestivo che sia metaforicamente inteso come il luogo “Teatro”) era purtroppo assai povero di sudditi… peccato, perché la produzione proposta era nel complesso valida e stimolante.

IL CASTELLO DI BARBABLU’ – foto MARIO FINOTTI

L’opera, musicalmente affascinante, timbricamente ricca e che non rinuncia alla tonalità pur essendo pienamente immersa nella temperie del Novecento musicale – composta nel 1911 vide la luce delle scene solo nel 1918 -, prevederebbe un grande organico orchestrale. La prima grande scommesa (vinta) è stata quella di eseguirla con un’orchestrazione ad organico ridotto (3 violini primi, 3 violini secondi, 2 viole, 2 violoncelli e ed 1 basso) curata da Paola Magnanini  e Salvatore Passantino, dell’Accaddemia AMO. Il lavoro è parso attento e rispettoso delle molteplici e impegnative intenzioni della partitura, e il principale merito del bravo direttore Marco Alibrando è stato quello di darci l’impressione, alla guida dei concentrati strumentisti dell’Orchestra del Coccia, di non trovarci di fronte a qualcosa di monco; il suono e i colori ci arrivavano pastosi, taglienti, luminosi secondo l’occorrenza, assecondando il flusso del discorso teatrale. Sempre attento al palcoscenico, Alibrando ha dato indubbia prova di rigoroso e analitico talento musicale, rendendo, con  i mezzi a disposizione, la febbrile, allucinata e al contempo rigogliosa astrazione della partitura di Bartók.

Faceva da Preludio all’opera la nuova composizione di Claudio Scannavini Dopo l’ultima stanza di Barbablù, in sé anche gradevole ma diremmo ininfluente dal punto di vista drammaturgico; è parsa più che altro un’esigenza di “fare serata”, dal momento che il Castello dura circa cinquanta minuti. Il Prologo recitato era affidato alle attrici Giuditta Pascucci e Carolina Rapillo.

IL CASTELLO DI BARBABLU’ – foto MARIO FINOTTI

L’opera sollecita molto il versante psicoanalitico-freudiano: l’impossibilità di penetrare l’essenza dell’altro, di arrivare a conoscerlo sino in fondo, perché questo porta contemporaneamente a perderlo; l’accettazione del mistero di chi ti sta di fronte e delle sue zone d’ombra e anche quella delle proprie paure, dei propri fantasmi; dietro le porte chiuse di Barbablù c’è ciò che temiamo e al medesimo tempo ci attrae. Judit vuole sapere tutto di Barbablù, non può accontentarsi solo del suo amore, vuole salvarlo da se stesso e finirà cristallizzata come le precedenti tre mogli, nel limbo di chi non ha saputo accontentarsi del presente e di sperare nel futuro, ma ha voluto togliere la maschera al passato. In fondo non è quello che è successo a Elsa in Lohengrin? Nel momento in cui vuole sapere chi l’uomo che le sta accanto è veramente, dopo aver promesso di non farlo, lui se ne andrà.

L’essenziale spettacolo con la regia di Deda Cristina Colonna e le scene di Matteo Capobianco è lineare ed efficace. Una struttura bianca girevole al centro del palcoscenico che simboleggia il castello con le sue sette porte e un dedalo di fili bianchi che, apertura dopo apertura delle medesime, forma un labirinto quasi inestricabile che allontana e separa sempre di più Barbablù e Judit. Lui è vestito di rosso, lei di bianco, colori quanto mai simbolici, e la donna indosserà a un certo punto dei guanti scarlatti, a significare il sangue che le ha lordato le mani e che stilla dalle stanze misteriose del marito e dagli oggetti in esse contenute.

IL CASTELLO DI BARBABLU’ – foto MARIO FINOTTI

Bravissimo, al suo debutto nel ruolo di Barbablù, cantato ovviamente nell’originale ungherese, è stato Andrea Mastroni. Ha la figura giusta per il ruolo, che interpreta con dolente, tormentata partecipazione e non ne teme la scrittura vocale: autentica voce di basso di timbro pastoso, scuro, avvolgente, omogenea in tutta la ganma, canta con morbidezza d’emissione, autorevolezza d’accento e robustezza di volume. Una prova davvero di prim’ordine.

Gli è stata degna partner Mary Elizabeth Williams, che in una parte quanto mai scabrosa quanto quella di Judith, a metà tra il registro sopranile e quello di mezzo, ha convinto per adeguatezza dei mezzi vocali e coinvolto slancio interpretativo.

Al termine dell’esecuzione, i “pochi ma buoni” presenti hanno tributato agli artefici della serata un caloroso successo.

Nicola Salmoiraghi

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