VENEZIA: Teatro la Fenice – La Traviata, 7 gennaio 2018

VENEZIA: Teatro la Fenice – La Traviata, 7 gennaio 2018

  • 09/01/2018

opera in tre atti di Giuseppe Verdi

su libretto di Francesco Maria Piave

basata su La signora delle camelie, opera teatrale di Alexandre Dumas (figlio)

Direttori Enrico CalessoMarco Paladin (9, 10/1)
Regia Robert Carsen

  • Violetta
    Claudia Pavone (6,19/12 – 3,5,7,10/01)
    Mihaela Marcu (7,9,21/12 – 4,9/01)
  • Alfredo
    Ivan Ayon Rivas (6,19/12 – 3,5,7,10/01)
    Leonardo Cortellazzi (7,9,21/12 – 4,9/01)
  • Germont
    Giuseppe Altomare (6,19/12 – 3,5,7,10/01)
    Armando Gabba (7,9,21/12 – 4,9/01)
  • Flora Elisabetta Martorana
  • Annina Sabrina Vianello
  • Gastone Iorio Zennaro
  • Barone Douphol William Corrò
  • Marchese d’Obigny Francesco Salvadori
  • Dottor Grenvil Luciano Leoni
    Scene e Costumi Patrick Kinmonth
    Coreografo Philippe GiraudeauOrchestra e Coro del Teatro La Fenice
    maestro del Coro Claudio Marino Moretti

    allestimento Fondazione Teatro La Fenice 

a cura di Paolo T. Fiume


Domenica 7 gennaio 2018.

 

Una delle opere più arcinote, la più popolare della già popolare trilogia popolare: Traviata. Uno dei palcoscenici con il pubblico più turistico d’Italia, nella città probabilmente in percentuale più turistica d’Italia, Venezia. Una delle regie più celebri e celebrate, pensata per la rinascita del teatro qual risorta Fenice novella dopo il drammatico incendio. La più semplice e generalista delle occasioni, una delle ultime repliche, la recita pomeridiana di una Domenica delle tarde festività natalizie. Il mix è perfetto per qualche riflessione.

Se la lirica degli addetti ai lavori e dei melomani è fatta di premières, di claques, di regie osé e di molte altre parole in francese, non si può dimenticare quanto importante, anche in termini numerici, sia il contributo dell’«ordinaria amministrazione» nell’universo operistico. In questo senso il Teatro La Fenice esce con un buon successo da una delle sfide più complesse: rendere interessante e fresca una recita di grande repertorio, di produzione non più nuovissima e senza nomi roboanti.

L’insieme funziona sicuramente sul solido fulcro della regia di Robert Carsen, inondata di fiumi di parole per le numerose riprese nel corso degli anni ed ormai pertanto superflua a commentarsi. Ancora adatto ai tempi, dicono alcuni; uno spettacolo ormai fiacco e vetusto, dicono altri; non è questo che importa. Il vero motivo per cui la scelta di riproporlo per ben tre produzioni anche nella corrente stagione risulta saggia e appropriata è che è uno spettacolo che, piaccia o no, è fatto veramente bene. Forse con un punto di ingenuità nel secondo atto, dove la pur bellissima foresta di sfondo non completa un quadro un po’ spoglio ed appiattito; forse con una presenza del verde dollaro un po’ troppo pervasiva, ma sicuramente di altissimo gusto ed equilibrio in tutti i movimenti, nelle curate ed eleganti scene di Patrick Kinmonth e soprattutto evidente frutto di una comprensione profonda dei significati più reconditi dell’opera. Fa infatti con abilità quello che ogni buona regia dovrebbe fare: suggerire nel gesto quello che nel testo resta alluso. Con buona pace di quelli per cui sarebbe un problema qualche natica un po’ troppo in vista nel coro di zingarelle, che forse in spiaggia vestono come Gustav von Aschenbach. A cosa servirebbe disperdere energie e risorse in nuove produzioni della Traviata avendo a disposizione questa, quando si può giustamente investire in novità che permettono alla Fenice di avere uno dei cartelloni con i titoli più interessanti dell’anno corrente?

Pregevole la direzione del trevisano Enrico Calesso, che dimostra come anche le pagine più famose possano beneficiare di una lettura originale e piacevole pur restando corrette ed efficaci. I tempi briosi, le strette rapide ma equilibrate, i cantabili intimi senza scadere nel didascalico o nell’artificioso, sono tutti indici di un approccio alla partitura genuino e sincero ma di grande rispetto. Il suono è sempre perfetto e ricco, generoso e soddisfacente senza mai coprire le voci, che per inciso godono tutte di una potenza per cui l’orchestra non è certamente una preoccupazione. Qualche transitorio difetto di intonazione dei violini primi, comprensibile in certi passaggi delicati, non altera per l’orchestra una prestazione di grande rilievo e giustamente molto acclamata.

Parte in sordina la Violetta di Claudia Pavone, che nel primo atto patisce tutte le difficoltà di un ruolo che non perdona l’eccesso: il timbro fatica a reggere con omogeneità l’imponente estensione e spesso il bel timbro è trasfigurato nel registro acuto, rumoroso e un po’ inelegante. Tutta un’altra storia nel resto dell’opera, dove sfoggia delle mezze voci rotonde e caldissime, penetranti ma controllate, e delle colorature ben cesellate e più in linea con il resto della vocalità. Un piccolo cedimento sul filato che conclude l’Addio del passato è un’inezia invece del tutto perdonabile, specie in considerazione della grande capacità di vestire in modo convincente i panni di uno dei personaggi più complessi dell’intero catalogo verdiano.

Generoso e molto soddisfacente l’Alfredo del giovanissimo Ivan Ayon Rivas, classe 1993 (sic!), dal timbro affascinante e ricco pur con un volume notevolissimo. Impressionante, a questa età, la sua abilità scenica e la capacità di legare canto, parola e recitazione in un’unità mirabile. Pecca forse con un po’ di spinta che lo porta ad essere ogni tanto lievemente crescente: speriamo che possa tornire un po’ l’esuberanza giovanile per conservare intatta la sua voce preziosa, tanto più non conoscendo certamente problemi di sonorità.

Chi convince di meno, nonostante un caloroso tributo da parte del pubblico, è invece il Germont del baritono Giuseppe Altomare: il timbro è molto ampio e sonoro ma poco raffinato, e pur portando a casa il ruolo senza particolari difficoltà non ha mai momenti di vera eccellenza. Più di tutto stona la scarsità di dinamiche, che lo porta ad essere sempre – e abbastanza fastidiosamente – in eccesso di volume nei concertati, e a dare un’impressione di cedimento negli acuti cantabili. Probabilmente tra i grandi baritoni verdiani quello di Giorgio Germont è il ruolo che si confà di meno alla sua tecnica, erede di una grandissima tradizione (Adami Corradetti, Corelli, Bergonzi) ma forse non ideale per la sottile meschinità del padre subdolo e calcolatore.

Buoni la Flora di Elisabetta Martorana e la Annina di Sabrina Vianello, che con intelligenza mantiene un timbro controllato e rotondo, perfettamente adeguato.

Particolarmente degno di menzione il Douphol di William Corrò, una voce che piace davvero e si distingue pur nel piccolo ruolo: la tecnica perfetta gli consente il solido controllo che fa la differenza in un buon fraseggio. Bravo e anche bello, come non hanno potuto fare a meno di apprezzare due rideste spettatrici un po’ attempate, e in effetti nel ruolo è qualità utile. Altrettanto corretto e piacevole il dottor Grenvil di Luciano Leoni.

Inappuntabile la prestazione del coro, diretto dal M.° Claudio Marino Moretti, che regala momenti da incisione discografica nel coro di zingarelle e mattadori e resta sempre di altissimo profilo, centrando in pieno quell’inconfondibile colore e amalgama che rende i cori di Verdi così trascinanti e amati.

Paolo T. Fiume

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