MILANO: Carmen in settanta minuti – Aliverta

MILANO: Carmen in settanta minuti – Aliverta

  • 20/11/2019

CARMEN

GEORGES BIZET

riduzione di PETER BROOK

 

Scordatevi sigaraie, grandi scene corali, arene, corride e folklore. Riprendendo in punta di piedi Brook, riscrivendolo e recuperando il finale di Bizet, metterò in luce il fortissimo carisma di Carmen, donna libera e appassionata, che incarna l’amore intenso e totalizzante, ben diverso da quello bigotto di Micaela. Carmen insegnerà cosa vuol dire amare a Don Josè, a Micaela e anche al grande seduttore Escamillo”. Questo è quando si può leggere dalla penna del regista Gianmaria Aliverta.

Di fatto la promessa viene quasi del tutto mantenuta, anzi oserei dire che si supera di larga misura ogni aspettativa, perché dell’opera a tutti nota rimane ben poco, se non la musica fatta a pezzi e ricomposta in una sorta di patchwork ed una trama che viene  decontestualizzata nello spazio e nel tempo. La vicenda di Carmen si perpetra ancor oggi, nel quotidiano presente di storie di passione, tradimenti e gelosia che l’opinione pubblica ha ormai etichettato tutte allo stesso modo, quasi non vi fosse alcuna differenza tra i motivi scatenanti un episodio di violenza o l’altro, come psicopatologie maschili legate ad un’insicurezza di fondo. Don José ci insegna che le cose non stanno proprio e soltanto così, ma passi purché si smetta col far del male alle donne!

La Carmen di Aliverta (… e qui bisogna sottolineare che è sua e non già di Bizet), è un meccanico e una pin-up anni ’50-’60, anche un po’ troppo disinvolta per l’epoca, tanto da lasciar intendere persino la sua disponibilità in un ménage à trois con Don José e Micaela che il regista definisce bigotta, ma che in fondo non è che una ragazza di sani principi. Valori che di certo ancor oggi rappresentano un caposaldo per le unioni e la formazione di normali famiglie. Normale è tutto quello che ha la tendenza ad essere duraturo, normale è tutto quanto non ha motivi di scatenare reazioni violente che troppo spesso sfociano nel sangue. Sdoganare Carmen quale vittima innocente della violenza di un pazzo a discapito di un più misurato comportamento qual è quello di Micaela credo non giovi a livello educativo. Va da sé che nessun comportamento violento è mai giustificato, tanto quello di Carmen, quanto e ancor meno quello di Don José.

Dell’amore si è molto parlato a livello psicologico e filosofico. Esistono innumerevoli trattati che avanzano la pretesa di poter insegnare ad amare, alcuni dei quali pretestuosi e tendenziosi. Sappiamo tutti anche troppo bene che per ogni addio, per ogni treno o taxi che parte, per ogni aereo che decolla c’è qualcuno che resta a terra col proprio dolore. “L’amore è un uccello ribelle che nessuno può domare”, è dichiaratamente un atteggiamento eccessivamente disinvolto che non tiene conto della sofferenza causata al partner da tanta licenziosità. È innegabile la leggerezza con la quale spesso i sentimenti delle persone mutino e che le attenzioni si orientino con facilità su altri soggetti, fa parte della natura umana. Purtroppo è parte della natura umana anche la sofferenza di chi si vede abbandonato, tradito e nel caso di Carmen, usato e schernito. Se vogliamo fare un uso pedagogico del teatro, insegniamo agli uomini come reagire senza l’uso della violenza, e alle donne ad avere un atteggiamento più cauto e meno lesivo della dignità altrui.

Ciò detto, non è a questa regia soltanto che rivolgo il mio personale disappunto sul modo di trattare l’argomento, bensì a tanti altri ancora che hanno sfruttato una vicenda operistica originariamente ben dosata negli equilibri delle responsabilità da risultare altamente educativa così come è stata concepita.

Bene invece, se non addirittura ottimo il lavoro compiuto sui protagonisti affinché si esprimessero al meglio, sin nei minimi dettagli, a livello attoriale. Anche se, si è avuta la netta impressione che la recita abbia sortito l’effetto di emozionare perché delineata in uno spazio ristretto, dove lo spettatore ha potuto beneficiare di una vicinanza agli interpreti che anche in un piccolo teatro d’opera non gli sarebbe consentita. In sostanza, la gestualità impartita agli artisti è sicuramente più adatta a spazi cabarettistici o a riprese video. Viene da chiedersi se questo sia per Aliverta un limite invalicabile o un geniale adattamento allo spazio a sua disposizione.

La scena è ridotta ai minimi termini, oserei definirla quasi alla stregua di un’attrezzeria fatta eccezione che per un chioschetto bifrontale che da un lato è officina meccanica, dall’altro bar “Lillas Pastia” ad opera del giovanissimo e bravo scenografo Danilo Coppola. Esilarante l’Escamillo venditore ambulante di carni alla brace che fa la sua entrata con una bicicletta-barbeque.

Come si è detto, bravi gli interpreti tutti, nelle intenzioni ma non vocalmente, fatta eccezione che per la Micaela incarnata dalla giovane italo-colombiana Isabel Lombana Mariño (già menzionata nel Combattimento di Tancredi e Clorinda) che lascia ben sperare in un futuro di interessante crescita.

Notevole l’Orchestra Voce all’Opera se pur ridotta ai minimi termini e ottimamente diretta dal M° Daniele Levi. I costumi sono curati da Sara Marcucci e risultano funzionali anche se avrebbero avuto bisogno di maggiore cura nelle scelte cronologiche e non soltanto, giacché un certo modello di Ray-Ban anni ’70, piuttosto che una divisa militare indefinita e raffazzonata con anfibi civili, mostrine francesi (?) su camicia italiana, così come la fibbia della cintura dei carristi e via dicendo… hanno un tantino inficiato la collocazione storico-ambientale dichiarata. Ma, intendiamoci… i fondi a disposizioni non sono certo quelli di un teatro d’opera. Le luci, sempre nei limiti consentiti, sono ben curate da Elisabetta Campanelli.

Nel complesso lo spettacolo cui si è assistito risulta godibile, anche se personalmente non condivisibile, a patto che non ci si aspetti di andare all’Opera!

Roberto Cucchi

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