POLONIA: Rigoletto conclude la stagione del Teatr Wielki a Lodz

POLONIA: Rigoletto conclude la stagione del Teatr Wielki a Lodz

  • 26/06/2018
Direttore: Tadeusz Kozłowski
Regia: Paolo Bosisio
Personaggi e Interpreti:
  • Rigoletto: Andrzej Dobber, Zenon Kowalski, Przemysław Rezner
  • Duca di Mantovai: Marco Kim, Łukasz Załęski, Dawid Kwieciński
  • Gilda: Aleksandra Borkiewicz, Hanna Okońska, Edyta Piasecka, Aleksandra Wiwała, Dorota Wójcik
  • Sparafucile: Rafał Pikała, Grzegorz Szostak, Robert Ulatowski
  • Maddalena: Bernadetta Grabias, Agnieszka Makówka
  • Giovanna: Olga Maroszek, Agnieszka Białek
  • Monterone: Grzegorz Szostak, Robert Ulatowski
  • Marullo: Andrzej Kostrzewski, Witold Tomczyk
  • Matteo Borsa: Dawid Kwieciński, Marcin Ciechowicz, Adam Węgliński
  • Conte di Ceprano: Łukasz Motkowicz, Andrzej Staniewski
  • Contessa Ceprano: Aldona Orzeł-Sztabińska, Joanna Śmiałkowska
  • Paggio: Ewelina Hrycak, Aldona Orzeł-Sztabińska
Woźny, Strażnik:
Romuald Kisielewski, Wiesław Rudnick
Scene: Domenico Franchi
Costumi: Zuzanna Markiewicz
Coreografia: Bogumiła Szaleńczyk
Assistenti di regia: Adrian Marginean, Adam Grabarczyk, Waldemar Stańczuk
MAestro del coro: Maciej Salski

Un’edizione assai rispettosa della migliore tradizione nelle scelte musicali e registiche, quella che ha concluso trionfalmente la stagione del secondo palcoscenico della Polonia, in cui risaltano, tuttavia, scelte interpretative e soluzioni sceniche di rilevante novità.
I costumi splendidi di Zuzanna Markievicz, ispirati al Quattrocento italiano, rivelano nella scelta dei preziosi materiali e nell’accuratezza dei dettagli un impegno da parte della costumista e del teatro a superare le sciattezze degli allestimenti cosiddetti “attuali” – sempre meno originali e meno motivati –  per ritrovare il gusto della raffinatezza, il piacere della trasgressione formale, il sapore degli impasti cromatici che, nelle luci disegnate e firmate dal regista stesso – anche per questo particolarmente elogiato dalla critica locale – assumono toni goyeschi, alludendo a un Seicento più oscuro e tormentato della corte ducale di Mantova, evocata d’altronde da Verdi solo per sottrarsi ai rigori della censura.

E della corte mantovana rimangono nella scenografia solo i portali, filologicamente citati all’interno di un impianto assai interessante di scatole concentriche che nella loro astrattezza e capacità suggestiva alludono con assoluta precisione agli spazi previsti dallo sviluppo del plot. Ne è stato artefice l’ottimo Domenico Franchi il cui nome affianca da qualche anno costantemente quello di Paolo Bosisio, con il quale si è venuto a creare un sodalizio prodigo di risultati.

Dal luminoso salone dentro al quale si svolge la vita dissipata e leggera di corte, fastidiosamente interrotta dalla maledizione del vecchio Monterone, si trascorre fluidamente alla strada nebbiosa che fa da cornice all’incontro tra Rigoletto e Sparafucile, e di lì alla stanza di Gilda: l’assenza di finestre, l’unica stretta porta che la collega all’esterno, il bianco ottico delle pareti, del pavimento e dell’unico arredo la rivelano come una sorta di dorata e asfittica prigione entro cui il padre custodisce il suo unico bene.

Il regista Paolo Bosisio sceglie di porre al centro della sua chiave di lettura il complesso rapporto tra padre e figlia, lasciando in penombra il ruolo del duca, il cui atto di seduzione nei confronti di Gilda smarrisce la rilevanza di un abuso di potere per rivelarsi lo sciocco e ripetitivo divertimento posto in atto da un dongiovanni di provincia.

Il gesto, e non chi lo ha compiuto, appare dunque il centro di interesse nella creazione verdiana (lontana assai dalla fonte francese) e nella lettura che ne fornisce Bosisio: esso viene, infatti, a spezzare una linea affettiva di intensità assoluta che trae origine dalla morte della madre di Gilda. Non a caso il regista la evoca nel quadro che occupa il preludio, durante il quale Gilda bambina accompagnata da un giovane Rigoletto depone una rosa sulla tomba della madre.

Gilda rimane negli anni a venire “l’universo intero” per il padre che la cresce, custodendola gelosamente al di fuori di ogni possibile rischio, oggetto sacro del suo amore che, insensibilmente, giunge forse ad assumere contorni fino un poco morbosi.

Rigoletto è un “diverso”, segnato fin dalla nascita da una deformità fisica che lo ha trasformato in un atroce giocattolo costretto a guadagnarsi da vivere intrattenendo proprio le  persone che giudica infami ,“cortigiani, vil razza dannata”. E da loro specialmente sente di dover difendere la propria figlia.

Il tradimento da parte di Giovanna, a cui egli l’ha affidata, è risolto dal regista in una maniera del tutto originale. Mentre un tulle cala a separare simbolicamente la stanza di Gilda dalla strada dove Rigoletto viene trascinato abilmente nella trappola predisposta dai cortigiani, alcuni di loro vengono condotti proprio da Giovanna al cospetto di Gilda a cui si propone il gioco della mosca cieca, sicché è lei stessa a lasciarsi bendare (come il padre che bendato regge un’inutile scala a pioli all’esterno) e trascinare via.

L’intelligenza di Rigoletto, che risulta confusa e appannata in questa parte dell’intreccio, è del resto messa a dura prova dai contrasti irriducibili ch’egli cela dietro la facciata professionale di buffone: l’astio nei confronti di chi “diverso” non è condannato a essere, l’amore disperato per la figlia, l’odio per coloro che hanno osato sottrarla alla sua intimità, la gelosia cieca e furiosa, la sete di vendetta e di sangue.

Il dramma umano di un uomo, che Bosisio disegna come fragile e disperato, si intreccia con il tema sottile del purissimo amore concepito da Gilda con disarmante semplicità nei confronti del seduttore seriale di cui ella si ostina a non vedere i bassi istinti. E tale amore senza limiti né incertezze finisce per oscurare l’altro e più autentico amore della di lei vita, quello per il padre.

I due fili della tessitura psicologica entrano, infine, in un fatale corto circuito che spinge i protagonisti a due gesti paralleli e sinergici: il padre assolda un assassino per liberarsi del seduttore di Gilda, e costei si immola sull’altare di un amore assoluto e insensato, suicidandosi.

In tale contesto, il duca – pur ritagliandosi spazi vocali di grande momento – resta comunque sullo sfondo, senza entrare davvero a far parte del tragico gioco di cui è solo il catalizzatore.

Il regista ha dato corpo a tale convincimento, costruendo il terzo atto su piani spaziali e luminosi che si succedono dal proscenio al fondale, forte del suggestivo e magnificamente allusivo impianto scenico firmato da Domenico Franchi.

In proscenio una strada nebbiosa accoglie la climax che conduce all’estremo la disperata consapevolezza di Gilda, guidata con la vana speranza di salvarla dal padre.  Alle loro spalle, dapprima separata da un tulle e poi solo da una parete immaginaria su cui si stagliano le sole cornici di una finestra e di una porta, la locanda di Sparafucile dove una donna di strada come Maddalena soggiace a sua volta al fascino sciocco e ripetitivo del Duca. Su un terzo piano, sullo sfondo, una scala lunghissima che allontana quest’ultimo dalla scena di morte di cui è inconsapevole e noncurante responsabile, sottolineandone la sostanziale estraneità.

Gilda, dunque, come si è detto, affronta la morte gettandosi suicida sul pugnale del suo assassino, in nome dell’amore mai rinnegato per il suo Gualtiero e del rimorso che in lei provoca la consapevolezza di avere ferito a morte il padre.

E, proprio nel momento in cui Gilda chiude gli occhi per sempre stringendo in mano la bambola che le abbiamo visto tenere cara per tutto lo svolgimento della vicenda, il regista decide di far rientrare nell’angolo di proscenio la bimba del Preludio, attenuata nei colori del viso e dell’abito, e come posata su una nube leggera che lambisce e poi copre il cadavere dell’eroina.

Sotto il profilo musicale il Rigoletto di Lodz è apparso eccellente specie nella seconda serata: nella prima, infatti, gli interpreti dei ruoli principali, solisti fra i più quotati in Polonia e all’estero, sono parsi un po’ fuori parte per qualità di voce e per convinzione nel dare vita alla volontà registica. Il secondo cast, invece, ha schierato un Rigoletto di prim’ordine nella persona di Zenon Kovalski, vocalmente lodevole e interprete eccellente di un carattere lacerato da sentimenti contrastanti, umanissimo e a un tempo attraversato da lampi demoniaci. Accanto a lui la straordinaria e giovanissima Hanna Okonska, al debutto nel ruolo, intensa e perfetta nell’interpretazione drammatica, servita da una voce angelica, di impressionante precisione tecnica e compiutezza musicale. Lodevoli anche il giovane Lukasz Zaleski, nei panni del duca, sicuro e fermo nell’esecuzione vocale, l’ottimo Sparafucile di Rafal Pikala, e la seducente Maddalena di Agnieska Makowka, un mezzosoprano dalla vocalità scura e penetrante, attrice coinvolgente e sicura. Sul podio il maestro Tadeusz Kozlowski, la cui esperta bacchetta ha mantenuto sotto perfetto controllo un coro e un’orchestra di prim’ordine.

la Redazione

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