Edita Gruberova, la magica astrazione di un canto senza confronti – a cura di Nicola Salmoiraghi

Edita Gruberova, la magica astrazione di un canto senza confronti – a cura di Nicola Salmoiraghi

  • 19/10/2021

Milano, 19 ottobre 2021


No, Edita no. Quando mi è giunta la notizia ieri sera poco prima che cominciasse la recita del Turco in Italia alla Scala, non volevo crederci, come gli altri amici intorno a me. Era mancata Edita Gruberova, a 74 anni (ne avrebbe compiuti 75 il prossimo 23 dicembre) a quanto pare per uno sciagurato incidente domestico (ma di questa eventualità non esiste conferma ufficiale, per cui è da prendere con beneficio d’inventario, starebbe solo a sottolineare l’incredulità di quanto accaduto).

Ma come, la Santa di Bratislava – così era universalmente conosciuta tra fans e appassionati – non era immortale? E lo era da più di cinquant’anni, da quel lontano 1968 in cui debuttò come Rosina nel Barbiere di Siviglia, e via via nel corso dei decenni (sì perché la carriera si è interrotta solo al termine del 2019) ha esplorato tutti i ruoli maggiori del repertorio belcantistico di coloratura, da Mozart sino all’opera francese.

Negli anni d’oro della sua parabola artistica, gli anni Settanta, Ottanta e una buona parte dei Novanta, il canto di Edita Gruberova era un’astrazione metafisica, con la capacità diabolica di sfumare i suoni a qualsiasi altezza, la mirabolante girandola di fuochi d’artificio degli abbellimenti, la sensazione che tutto risultasse facilissimo e invece facile non era.

La sua indimenticabile Lucia era davvero persa tra i cieli di Walter Scott, e così incantavano la sua Elvira dei Puritani, la sua Amina, Linda di Chamounix, la sua astrale Regina della Notte, ma anche Gilda, Violetta, pietre miliari nella storia della vocalità degli ultimi decenni; si poteva a volte discuterne il gusto, lo stile, ma il miracolo di quella voce era indiscutibile; catturava, stregava e lo faceva per sempre, forte di una personalità affatto unica, che sul palcoscenico era calamitante e assoluta. Ci sono le grandi voci, e poi gli artisti che hanno quel qualcosa in più ed entrano nel Mito. Edita era questo.

Come dimenticare l’esplosione di vitalità e di barbagli vocali che erano la sua inimitabile Zerbinetta di Ariadne auf Naxos o l’Adele di Die Fledermaus. Con il passare degli anni arrivarono traguardi più “drammatici” per Edita Gruberova, le tre Regine di Donizetti, Lucrezia Borgia, Beatrice di Tenda, addirittura Norma e Semiramide (senza dimenticare Manon – Massenet – e le donne dei Contes d’Hoffmann). I suoi Bellini, Donizetti, Rossini erano del tutto peculiari, forse non aderenti allo stile “italiano”, può essere, certo, ma cosa conta se l’effetto è elettrizzante, magnetico, e ti tiene inchiodato alla poltrona?

Gli ultimi vent’anni della sua carriera si sono trasformati, di anno in anno, in una sorta di monumento alla memoria, in cui Edita Gruberova perpetrava l’immagine di sé stessa rimbalzandola e ingigantendola. Riti laici in cui non importavano più la nota glissata, il portamento eccessivo, l’emissione non ortodossa, perché ogni volta vinceva la magia e l’antica gloria risplendeva nei momenti più impensabili. Era l’“Edita Show”, prendere o lasciare, e legioni di spettatori adoranti da tutto il mondo hanno continuato a farsi incantare da questa maga Armida del pentagramma, fino all’ultimo. Come meritano i grandi.

Io l’ho ascoltata diverse volte in questa fase, in una Norma in forma di concerto al Festival di Salisburgo, accolta da un trionfo al calor bianco al di là di ogni ragionevole – e inutile – appunto, in un rovente Roberto Devereux a Zurigo (il suo “Non regno, non vivo” lo ricorderò finché campo, con buona pace dei puristi), e sempre nella città svizzera nella sua incredibile Alaide nella Straniera di Bellini; bisognava essere lì per crederci; eravamo oltre la musica, il fatto musicale, oltre. Era qualcosa di più, di straniante, di assurdamente commovente; di criticabile? Ogni gessetto rosso viene a cadere davanti al Genio, e il Genio non risponde agli schemi, tutto qua. E poi c’è stato il concerto alla Scala nel 2015, con i tre finali di Stuarda, Bolena e Devereux… ho ancora l’eco delle acclamazioni nelle orecchie (e nel cuore). Ripeto, del bilancino sonoro e musicale mi importa poco o punto, so che quello che ancora riusciva a trasmettere, perché la zampata della diva era pronta a colpire ad ogni angolo di cabaletta, una Signora di quasi 69 anni, era unico.

Dicono che toccare il lembo della veste della Santa di Bratislava, portasse taumaturgicamente fortuna. Io quella sera, assiepato tra i moltissimi sotto il palco l’ho fatto. Ha funzionato? Direi che qualsiasi persona che ami questa folle, totalizzante, irragionevole forma d’arte che si chiama opera e ha avuto la ventura di imbattersi nella sua voce è stato comunque fortunato, a prescindere.

 A Socrate, prima che morisse, chiesero “In che modo vuoi essere seppellito?”Come più vi piace, sempre che riusciate a prendermi”. Edita Gruberova è nelle brughiere della Scozia, sui monti svizzeri, sull’isola di Naxos, nella Vienna asburgica, a Saint-Sulpice, a Hampton Court, in Gallia, a Babilonia, a Parigi, a Mantova, Venezia e Ferrara. In troppi posti contemporaneamente perché possiamo afferrarla. Possiamo solo fermarla nel cuore, con il potere che hanno gli Artisti, quelli veri, di guardarci dentro e colpirci nell’anima.

Nicola Salmoiraghi

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