NOVARA: Nabucco 23 febbraio 2018 a cura di Paolo T. Fiume

NOVARA: Nabucco 23 febbraio 2018 a cura di Paolo T. Fiume

  • 03/03/2018

Opera in quattro atti
Musica di Giuseppe Verdi, su libretto di Temistocle Solera
Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 9 marzo 1842

Regia, scene, costumi e luci Pier Luigi Pizzi
Direzione d’orchestra Gianna Fratta

Personaggi e Interpreti:

  • Nabucco (Nabucodonosor), re dei Babilonesi ENKHBAT AMARTUVSHIN
  • Ismaele, nipote di Sedecia re di Gerusalemme TATSUYA TAKAHASHI
  • Zaccaria, gran pontefice degli Ebrei MARKO MIMICA
  • Abigaille, schiava, figlia adottiva di Nabucco REBEKA LOKAR
  • Fenena, figlia di Nabucco innamorata di Ismaele SOFIA JANELIDZE
  • Abdallo, vecchio ufficiale del re di Babilonia GJORGJI CUCKOVSKI
  • Anna, sorella di Zaccaria MADINA KARBELI
  • Gran sacerdote di Belo DANIELE CUSARI
    Soldati babilonesi, soldati ebrei, Leviti, vergini ebree, donne babilonesi, Magi, grandi del regno di Babilonia, popolo (coro)

Coreografie Francesco Marzola

Orchestra della Fondazione Teatro Coccia
con Orchestra del Conservatorio Guido Cantelli
Coro San Gregorio Magno

Allestimento della Rete Lirica delle Marche

Produzione Fondazione Teatro Coccia Onlus

 

 


Una nuova prova d’eccellenza per la Fondazione Teatro Coccia di Novara con una produzione di Nabucco che già dal cartellone si preannunciava decisamente allettante.

L’allestimento, ripresa di uno spettacolo dello scorso anno della Rete Lirica delle Marche, porta l’eminentissima firma di Pier Luigi Pizzi. Con la disarmante semplicità di una piattaforma lievemente digradante e uno sfondo neutro illuminato solo da un’alternanza di colori, la scena è libera per consentire uno svolgimento lineare, elegante, sapientemente mosso, del tutto distante (e fortunatamente) dai soliti cliché che infestano i grandi titoli verdiani. Particolarmente felice la scelta essenziale degli oggetti di scena: una menorah per il primo quadro, il trono aurato della cabaletta di Abigaille per il secondo, e infine un magistrale “idolo infranto” per l’ultimo, una grande colonna a tutta altezza di maschere dorate sullo sfondo, pronte a infrangersi con un effetto per una volta assolutamente credibile, oltre che sapiente citazione del biblico sogno di Nabuccodonosor, con la statua dal capo d’oro a rappresentare l’impero babilonese. Equilibratissima e godibile la regia, dalla grande tensione emotiva e ricca di quella fondamentale naturalezza che è indispensabile per far attraversare ai protagonisti e alla loro anima inquieta quello strato retorico che rischia sempre di manifestarsi e chiudere ogni autentica comunicazione con il pubblico. Particolarmente centrato specialmente il personaggio di Abigaille, con una punta di vera eccellenza nel grande duetto con il padre del terzo atto. È perfettamente tratteggiata quella che con un po’ di ardimento potremmo retrospettivamente chiamare la sua pulsione di morte (Su me stessa rovina, o fatal sdegno!). Ottime le luci: riuscitissimo come un uovo di Colombo il difficile momento della punizione divina su Nabucco, con un semplice ma preciso effetto di neon sfarfallante molto cinematografico e autenticamente impressionante. Raffinati e misurati i costumi, centrati sul bianco e argento per gli Ebrei e sulla porpora ed oro per i Babilonesi.

Gianna Fratta alla testa dell’Orchestra del Teatro Coccia con aggiunti del Conservatorio Guido Cantelli offre una bella lettura dell’opera. I tempi sono generalmente molto corretti, talora piacevolmente brillanti (stretta della Sinfonia), talora ricchi e cantabili (Anch’io dischiuso un giorno), talora perfettamente equilibrati tra l’esigenza di movimento e la definizione melodica (Lo vedeste?… Fulminando). Il timbro è centrato e l’equilibrio con il palco è accuratamente controllato, specialmente nei finali più roboanti. Unica pecca, l’anacronistica ricchezza di tagli, specie sulle riprese delle cabalette, con il risultato di una saltuaria perdita di equilibrio nell’oscillazione agogica propria della struttura dell’opera all’italiana, che diviene preponderante sui tempi ariosi.

Stella indiscussa della serata il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat al debutto nel ruolo eponimo. Fin dalle primissime note della sortita si è conquistati, scossi nell’animo da una voce senza eguali, di ricchezza timbrica inaudita, sia mascolina che celestiale, sia profonda che penetrante. La pienezza del canto sembra giungere da ogni dove in teatro, dal profondo dell’universo. Bisognerebbe sentirlo, almeno una volta, per capire che cosa può arrivare ad essere il teatro d’opera. Il mezzo è non solo naturalmente meraviglioso, ma anche sapientemente indirizzato negli affetti del personaggio, con un controllo certosino e una pronuncia impeccabile (migliore per studio delle vocali a quella di tanti italiani madrelingua), ancor più piacevolmente sorprendente considerando che non parla l’italiano. Tutta la gamma dinamica è esplorata con sicurezza e controllo, con totale omogeneità, enorme confidenza in acuto e con l’apparenza di una semplicità disarmante nel trattare un ruolo decisamente esigente. Complimenti a Renato Bonajuto, segretario artistico e responsabile del casting, per questa felicissima scelta.

Molto buono lo Zaccaria del croato Marko Mimica, che a dispetto della giovane età e del timbro più agile sulla zona acuta canta sempre con eleganza e correttezza, offrendo un personaggio pienamente convincente. Peccato la mancanza del Fa# acuto nella cabaletta di sortita (Come notte a sol fulgente), che considerando le grandi doti vocali probabilmente sarebbe perfettamente riuscito, ma non ha senso farne un difetto: la sua prestazione è stata ottima.

Anche lei più a suo agio nella tessitura acuta e nella coloratura, ma offrendo comunque dei salti impeccabili e dei gravi perfettamente ordinati, l’Abigaille di Rebeka Lokar. Il ruolo assolutamente impervio è saggiamente interpretato senza caricare la voce di colori che non le appartengono, con il risultato di un canto omogeneo e affascinante. Giustamente applauditissima la grande aria di apertura del secondo atto.

Meno emozionante Tatsuya Takahashi (Ismaele): globalmente corretto e dal timbro ricco ma spesso un po’ affaticato e spinto in acuto. Impeccabile invece la Fenena di Sofia Janelidze: il mezzosoprano georgiano si distingue per un timbro ricco e sempre misurato, dal perfetto vibrato tipico della vocalità, con un eccezionale acuto al termine della difficile Oh, dischiuso è il firmamento e in generale una grande abilità in particolar modo determinante per la riuscita dei concertati.

Ottimi comprimari Anna (Madina Karbeli) e il poderoso basso novarese Daniele Cusari (Gran Sacerdote).

Di alto livello sia per arte scenica che per equilibrio timbrico il Coro San Gregorio Magno del M.° Mauro Rolfi, i cui unici limiti in quest’opera sono forse costituiti da meri aspetti numerici, come una sezione tenorile esile rispetto alle richieste della partitura e dalla difficoltà di far giungere in sala una pienezza sonora autenticamente verdiana nei cori disposti sullo sfondo dalla regia. Il Va, pensiero in proscenio è infatti invece perfetto.

Al netto dei piccoli appunti che danno ragione d’esistenza ad una critica, è comunque necessario riflettere, e ricordare che una produzione del genere è di anni luce superiore a quanto appare solitamente in un panorama provinciale, quale in effetti Novara non può che essere considerato. Uno spettacolo del genere non avrebbe sfigurato nei templi della lirica più importanti del globo, e sovrasta di misura qualsiasi produzione di pari livello si possa vedere oggi in Italia. Si accorgerà, qualcuno, di quanto una amministrazione capace di una Fondazione volenterosa sia capace di plasmare nelle mani di persone di vera competenza? Ce lo auguriamo sinceramente.

a cura di Paolo T. Fiume

Paolo T. Fiume

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