Intervista con il M° Enrico Calesso

Intervista con il M° Enrico Calesso

  • 28/11/2018

Il M° Enrico Calesso è attualmente impegnato nella prima ripresa della Traviata settembrina del Teatro dell’Opera di Firenze, in scena dal 29 novembre al 9 dicembre. Lo abbiamo raggiunto nell’intervallo di una prova d’assieme per porgli qualche domanda.

 

 Maestro, come sta? Ultimamente la vediamo sempre più impegnato in produzioni italiane, anche se il suo baricentro è a Würzburg.

 Molto bene, grazie. Emozionato e felice per questo mio debutto fiorentino, con un’opera che amo e con un magnifico cast di collaboratori. Sì, sono abbastanza spesso in Italia. Ho un curriculum un po’ atipico, da giovane parallelamente alla laurea in filosofia a Ca’ Foscari [con Emanuele Severino, ndr] ho subito iniziato a studiare direzione d’orchestra all’estero, a Vienna. Mi sono fatto strada in un percorso molto differente da quello più tipicamente italiano, oltre alle canoniche esperienze di assistente e collaboratore il primo incarico fisso è arrivato a Erfurt nel 2007, dove ho fatto il Maestro Sostituto e poi il Kapellmeister. Parallelamente sono stato attivo dal 2008 al 2010 a Vienna come Direttore Musicale all’Oper Klosterneuburg approdando poi a Würzburg, prima come Primo Kapellmeister e poi come Generalmusikdirektor, per il cui ruolo ho mandato fino al 2021.

E come mai ha deciso di tornare?

 Ne avrei sempre avuto il desiderio, ma in realtà la natura del lavoro direttoriale stabile tedesco è abbastanza incompatibile con grandi periodi all’estero, principalmente per ragioni di tempo. Ad ogni modo, ero in contatto con l’Italia da molti anni, poi si è presentata l’occasione a Venezia, al Malibran per la stagione della Fenice, con il dittico Il Segreto di Susanna (Wolf-Ferrari) – L’agenzia matrimoniale (Hazon), nel 2016. Ho poi diretto due riprese della Traviata di Robert Carsen sempre alla Fenice, nel 2017 e 2018, e ora qui a Firenze. Dopo vari anni di direzione generale del Mainfranken Theater Würzburg inizio a riuscire a ritagliarmi degli spazi anche per produzioni estere.

Dev’essere un modo di lavorare molto diverso, quello tedesco.

 Per molti versi sì. Per esempio, il Generalmusikdirektor è interamente responsabile della pianificazione sinfonica, e di concerto con la direzione artistica di quella operistica. È una grande fortuna, nel senso che c’è ampia collaborazione nella scelta dei cast, ma è anche un grande impegno amministrativo che obbliga ad una presenza quotidiana in teatro e a numerosissime altre responsabilità organizzative. L’obiettivo fondamentale, comunque, è quello di avere un comparto artistico e scenico il più omogeneo possibile. Molto spesso i cast sono legati da varie ragioni al teatro, anche per molti anni, e riescono a collaborare con la sorprendente efficacia che è sempre frutto di intesa ed esperienza. Il fatto stesso di avere voci omogenee rende molto più versatile il cast. È nello squilibrio che la voce veramente fuori ruolo, quando c’è, si nota. Il fulcro attorno a cui ruota tutto è il palcoscenico, non l’istituzione teatrale, e penso che faccia una grande differenza non soltanto simbolica.

Anche l’organizzazione stagionale è molto diversa, vero?

 Sì, decisamente. Invece di avere singole produzioni isolate viene presentato un “repertorio” che poi dura per quasi tutto l’anno. Per dire, dei Vêpres siciliennes che abbiamo fatto a Würzburg quest’anno, la prima era il 20 gennaio, l’ultima a fine luglio, in tutto 15 recite, con altri 6 titoli in cartellone contemporaneamente. Faticoso, specialmente per il comparto scenico e per coordinare il cast su un periodo così lungo, ma dal punto di vista del pubblico spesso molto gradito.

Pensa che ci sia lo spazio per imparare gli uni dagli altri, tra Italia e Germania?

 Senza ombra di dubbio. Quanto a tradizione, l’Italia non ha nulla da imparare, un pubblico spesso entusiasta e appassionato, e un patrimonio storico e artistico che molti sanno valorizzare con grandissima abilità. Forse sarebbe possibile però trarre qualche ispirazione dal sistema tedesco. Secondo me sarebbe proprio interessante sperimentare sempre più la sostenibilità della programmazione cosiddetta “di repertorio”. Penso anche a tutto quello che “c’è ma non si vede”, come le maestranze. Le maestranze e gli artisti in Germania sono generalmente molto più legati ai singoli teatri che in Italia, anche per ragioni contrattuali. È un ottimo modo di contenere i costi preservando (anzi, innalzando) la qualità finale della produzione, il che forse in Italia è qualcosa che potrebbe tornare molto utile. L’impressione è che ci sia una maggiore stabilità, forse legata anche ad una presenza sul territorio abbastanza capillare delle istituzioni teatrali, che permette anche di aprire possibilità inedite per il pubblico: per esempio da questa stagione per gli studenti di Würzburg è possibile andare a teatro gratuitamente versando una quota di 2€ a semestre [sic, ndr].

Avrà sentito, tornando dalle nostre parti, le recenti dichiarazioni di Muti a proposito di registi, regie moderne, messe in scena inadeguate, eccetera. Sembra un tema che desta sempre un certo scalpore tra i melomani, e probabilmente più qui da noi che altrove. Come si rapporta lei con i registi e con le regie?

 Nel rapporto direttore/regista distinguerei innanzitutto tra regie di nuova produzione e riprese. Nel primo caso, cerco di avere le idee molto ben chiare sull’allestimento scenico già molto prima della rappresentazione, almeno un anno. Si può così discutere insieme e avere il tempo di pensare a tutta una serie di elementi concreti come tagli, durate, tempi di cambio scena, che è possibile risolvere con efficacia e perfezione soltanto con grande sinergia tra musica e palcoscenico. In realtà, personalmente, non ho mai avuto problemi con nessun regista. Quando ho idee musicali che ritengo imprescindibili cerco di comunicarle e di farne comprendere le ragioni, nessuno se l’è mai presa a male e un punto d’incontro si è sempre trovato. Certo, è necessario che il team di regia abbia una certa apertura, ma con previdenza e tranquillo confronto si risolve tutto.

Nel caso di una ripresa?

Ecco, nel caso di una ripresa i margini sono ovviamente minori, ma non inesistenti. Ci vuole ovviamente il massimo rispetto per l’idea originale. Studiare attentamente una regia ripresa è fondamentale per il direttore, bisogna cercare di entrarne nella logica. Spesso con uno sforzo di comprensione è possibile anche trovare soluzioni nuove, che possono adattarsi meglio al nuovo cast. Mi è capitato proprio in una produzione di Traviata di scoprire nuovi dettagli registici proprio alla fine del duetto di Violetta e Alfredo (Qui giunge alcun.. partite). Il richiamo musicale dell’apertura negli archi non può passare inosservato dal punto di vista scenico, ed è un esempio tra tanti per dire quello che a me personalmente interessa che ci sia in una regia. È importante organizzare la regia in modo che tutti i rimandi intertestuali funzionino come inconscio, direi quasi come leitmotiv. L’ambientazione, la collocazione cronologica, le scene, i costumi, sono tutti elementi importantissimi, ma non sono centrali. Il punto centrale è che ci deve essere una storia, e dev’essere una storia coerente con la partitura. Se si rispetta l’armonia tra partitura e storia ci possono essere sorprese emozionanti ed incredibili.

Andrea Palermo per Redazione – I Teatri dell’Est

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