«Sento l’orma dei passi [restaur]ati»  Un ballo in maschera al Teatro Regio di Parma, 19 gennaio 2019 – a cura di Attilio Cantore

«Sento l’orma dei passi [restaur]ati» Un ballo in maschera al Teatro Regio di Parma, 19 gennaio 2019 – a cura di Attilio Cantore

  • 26/01/2019

UN BALLO IN MASCHERA

Melodramma in tre atti, libretto di Antonio Somma da Gustave III ou Le bal
masqué di Eugène Scribe

Musica GIUSEPPE VERDI

 

Maestro concertatore e direttore SEBASTIANO ROLLI

Regia MARINA BIANCHI

Personaggi e Interpreti

  • Riccardo SAIMIR PIRGU, OTAR JORJIKA (17, 19)
  • Renato LEON KIM, SERGIO BOLOGNA (17, 19)
  • Amelia IRINA CHURILOVA, VALENTINA BOI (17, 19)
  • Ulrica SILVIA BELTRAMI, AGOSTINA SMIMMERO (17, 19)
  • Oscar LAURA GIORDANO, ISABELLA LEE (17, 19)
  • Silvano FABIO PREVIATI
  • Samuel MASSIMILIANO CATELLANI 
  • Tom EMANUELE CORDARO
  • Un Giudice BLAGOJ NACOSKI
  • Un servo di Amelia BLAGOJ NACOSKi

Scene GIUSEPPE CARMIGNANI 

Ripristino fondali RINALDO RINALDI 

Coordinamento spazio scenico e arredi LEILA FTEITA

Costumi LORENA MARIN 

Luci GUIDO LEVI 

Coreografie MICHELE COSENTINO 

Video STEFANO CATTINI

ORCHESTRA FILARMONICA ITALIANA

ORCHESTRA GIOVANILE DELLA VIA EMILIA

CORPO DI BALLO ARTEMIS DANZA

CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA

Maestro del coro MARTINO FAGGIANI

Allestimento storico (1913) del Teatro Regio di Parma

In coproduzione con Auditorio de Tenerife, Royal Opera House Muscat

 

 

In tutti i tempi una tradizione ha fatto comodo.

Ma non mai come in questi tempi scombujati.

Emilio Cecchi, Pesci rossi, 1920


La presa di coscienza di un inarrestabile distacco dalla tradizione spesso genera un’ansia di ricostruzione, una corsa sfrenata al remake votata alla riappropriazione e alla rivelazione di ciò che è andato distrutto o che, fortunosamente, ancora sopravvive per sdruciti cimelî.

Qualunque opera d’arte del passato è sempre immancabilmente uno “spirito estraniato” bisognoso di una corretta appropriazione. Come comportarsi: ricostruire o integrare?

Hans-Georg Gadamer, già nel 1960, aveva dedicato le ultime pagine della prima parte di Verità e Metodo alle differenti modalità di riattivazione di ciò che è stato. Se come paladino della integrazione veniva eletto Hegel, conscio dell’impossibilità di qualsiasi restaurazione dell’antico, Schleiermacher si configurava, d’altro canto, come strenuo difensore dell’assunto secondo cui «un’opera d’arte è anche, in senso vero e proprio, radicata nel suo terreno e nel suo suolo, nell’ambiente a cui appartiene. Essa perde già il suo significato quando è tratta fuori da tale ambiente e diventa un oggetto di scambio; diventa come qualcosa che sia stato salvato dal fuoco, e che porta su di sé tracce di bruciatura» (Schleiermacher, Ästhetik).

Ma è proprio vero che un’opera d’arte possiede pienamente il proprio significato solo nell’ambiente originario cui appartiene? Per coglierne appropriatamente il significato è necessaria dunque una ricostruzione dell’originario?

Il Teatro Regio di Parma sembrerebbe essere stato in linea con tale presupposto estetico. Con la nuova produzione di Un ballo in maschera, molto attesa e dall’esito soggiogante, la tradizione è stata letteralmente restaurata: una scenografia di carta dipinta ha avuto modo di raccontare ancora «il teatro com’era un tempo».

Sono tornate così a vivere le splendide scenografie realizzate nel 1913 da Giuseppe Carmignani – allievo di Girolamo Magnani – in occasione delle celebrazioni del primo centenario della nascita di Giuseppe Verdi. Da lungo tempo obliate nei depositi del teatro e logore in molte loro parti, queste scenografie sono un documento di altissimo valore storico arrivato pressoché nella propria interezza sino ad oggi. Gli spettatori più nostalgici si saranno di certo lasciati sedurre dalla visività teatrale oleografica, vagheggiando una lontana età dell’oro tutta prospettiva e trompe l’œil.

Si deve al mirabile intervento di Rinaldo Rinaldi e della sua équipe l’aver permesso, in un certo senso, quella che si potrebbe definire una “seconda creazione” di questo Ballo in maschera, grazie all’accurato ripristino dei fondali, restituendone tutto il vetusto splendore. Riecheggiano le parole sempre valide di Antonio Prete: «La ricerca della bellezza, del suo apparire, si accompagna al compito di una sua custodia e protezione».

Come se fosse necessario rimarcarlo, un breve trailerà la manière de le cinéma – proiettato durante l’esecuzione della ouverture ripercorreva enfaticamente le tappe principali del lavoro, glorificando il recente restauro e omaggiando altresì implicitamente l’innegabile valore di tutte le maestranze italiane che hanno in ogni tempo reso grande l’opera lirica nel mondo.

Pare allora che la regia, alquanto rarefatta, di Marina Bianchi – affiancata da Leila Fteita per il coordinamento dello spazio scenico – abbia colpito nel segno nell’offrire condecentemente un’idea piuttosto “archeologica”, ma perlomeno indulgendo in una moderna indagine prossemica e allontanandosi, in tal modo, dalle convenzionalità maggiormente polverose. Gestualità e intenzionalità moderne che sfilano su un prezioso fondale ultracentenario di carta dipinta, illuminato purtroppo non così efficacemente come ci si sarebbe aspettato. Per folgorante cortocircuito sinaptico, vengono in mente certi versi di Titos Patrikios: «inventiamo qualcosa di nuovo / facciamo cose completamente nostre / lasciando sempre le tracce / di origini più antiche».

 Un ballo in maschera è forse il più compiuto modello di melodramma verdiano: anzi, Gabriele D’Annunzio lo catalogò come «il più melodrammatico dei melodrammi». La trama ruota attorno ai temi dell’amicizia e del patriottismo, piuttosto che al tema dell’amore (al triangolo amoroso Riccardo-Amelia-Renato). Nella scena finale, durante le bal masqué, si intrecciano le fila dei destini individuali dei protagonisti sullo sfondo della comunità del New England. La tragedia viene messa in risalto dall’ingegnoso sfruttamento di una volontà espressiva per cui il dolore del singolo si esprime sui tempi di una generale euforia: Riccardo viene ucciso a ritmo di mazurca. Prima di spirare, il governatore di Boston diverrà un po’ Arrigo e un po’ Gusmano, riassumendo nella sua proverbiale clemenza il finale de La battaglia di Legnano e dell’Alzira.

Complessivamente, il più che inesperto avvocato veneziano Antonio Somma, che «Assu[nse] di verseggiare» l’opera, confezionò un libretto fra i più farraginosi e assurdi che la storia della musica ricordi; ma ugualmente Verdi riuscì a ricavarne la “tinta” e fece anche di più: contemperò il colorito romantico con l’accento drammatico ed il “fare svelto” e leggiadro del teatro francese. Il 17 febbraio 1859 il pubblico del Teatro Apollo di Roma assistette a un’opera di ampio respiro melodico, in cui «ogni parola è fatta canto; ogni frase è un tratto della linea canora che corre, senza interrompersi, dal principio alla fine» (Carlo Gatti).

Per questo allestimento storico del Teatro Regio di Parma la direzione musicale è affidata a Sebastiano Rolli, sovente votato a non adeguarsi alle esigenze degli interpreti e a trascinare il pubblico forzando i decibel del tessuto orchestrale, ma guida sicura per il «vascello armonico», nato dalla fusione dell’Orchestra Filarmonica Italiana e dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, al suo debutto. Di gran livello il coro preparato da Martino Faggiani.

Il tenore georgiano Otar Jorjikia è un notevolissimo Riccardo: calato perfettamente nel personaggio, con dizione impeccabile ha saputo interpretare a tinte splendenti l’irrefrenabile delirio amoroso del Conte di Warwich.

Al creolo Renato di Sergio Bologna sono stati riservati gli applausi più calorosi; qualche imprecisione, ma il ruolo del segretario del governatore è interpretato con successo.

Debutta il ruolo di Amelia il soprano Valentina Boi, dall’accento scultoreo e dall’intensità passionale: voce di grande interesse che si spera nel futuro di ascoltare sempre più in altri numerosi ruoli verdiani.

Ulrica, maga «dell’abbietto sangue de’ negri», è portatrice di una dolorosa e lacerata autocoscienza: il mezzosoprano Agostina Smimmero ne esalta bene lo spettro cromatico vocale di sapore intenso e velatamente malefico.

Il soprano coreano Isabella Lee con grande verve conferisce piccante malizia al paggio grazioso e impertinente Oscar – reviviscenza caricaturale del Cherubino mozartiano.

I bassi Massimiliano Catellani ed Emanuele Cordaro costituiscono la coppia di facinorosi congiurati, maestri di rappresaglie e di niaiseries, Samuel e Tom.

Uno splendido cammèo il marinaio Silvano del baritono Fabio Previati.

Assai gustoso anche il giudice, venato di gaiezza cattedratica, del tenore macedone Blagoj Nacoski, nei panni del servo di Amelia nella scena dell’«antro dell’oracolo».

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